PENSIONI, ALLARME IMMOTIVATO
di Antonio Lucaroni*
CIDA ha chiesto il contributo qualificato del prof. Alberto Brambilla, Presidente del centro studi Itinerari Previdenziali, per spegnere sul nascere recenti allarmismi sulle pensioni: sia sul fronte delle previsioni di spesa, sia in merito a velleitarie riforme costituzionali in grado di minare l’equilibrio contributi-prestazioni.
Banca d’Italia e Corte dei Conti hanno recentemente lanciato l’’allarme-pensioni. Condivide questa visione della spesa pensionistica?
Non riesco a capire i motivi di questo allarme; dai dati che stiamo elaborando per il Rapporto sul bilancio del sistema previdenziale che presenteremo al Governo e alle Commissioni Parlamentari il prossimo 21 febbraio alla Camera dei Deputati, ricaviamo quanto segue: a fine 2016 (ultimo anno disponibile) il numero degli occupati è aumentato rispetto al 2015 di 294 mila unità passando da 22.464.753 a 22.757.838, il dato migliore dal 2009 e simile a quello del 2007. L’occupazione femminile è passata dal 47,1% del 2007 al 49,1% del secondo trimestre del 2017, il dato migliore di sempre. Per contro il numero dei pensionati si è ridotto di 114.869 unità toccando nel 2016 quota 16.064.508, il dato più basso dal 1997 (primo anno del nostro DB). Pertanto il rapporto tra attivi e pensionati è arrivato a 1,417, non un dato eclatante ma il migliore dal 1997. Con un rapporto di 1,5 attivi per pensionato non siamo sulla luna ma cominciamo ad avere un sistema più sostenibile. Infine la spesa pensionistica pura è aumentata del solo 0,20% tra il 2015 e il 2016, segnando nel triennio un incremento annuale dello 0,57%, tra i più bassi di sempre a differenza della spesa per assistenza che cresce ad un ritmo spaventoso e non sostenibile del 5,9% l’anno. Sul dato assistenza non si è sentito nessun lamento.
Sulle pensioni è in corso un confronto fra Governo e sindacati che hanno presentato un articolato documento per ‘superare’ la legge Fornero. A suo parere vi sono margini di manovra?
La legge Fornero ha ingessato il sistema indicizzando all’aspettativa di vita sia l’età di pensionamento (prevista peraltro dal precedente Governo Berlusconi) sia l’anzianità contributiva; la prima indicizzazione va nel senso giusto anche se a mio avviso occorre rivedere il meccanismo di calcolo adottato da Istat, cosa fattibilissima avendo a disposizione tutto l’anno 2018 visto che il prossimo scatto decorrerà dal 2019. L’indicizzazione dell’anzianità contributiva è un errore e va riportata ad un massimo di 41 anni e mezzo con non più di 3 anni di contribuzione figurativa. Va anche reintrodotta la norma che considera una maggiorazione di un quarto di anno per tutti coloro che hanno iniziato a lavorare prima dei 21 anni e ampliata l’agevolazione che abbiamo scritto nella legge Dini per le donne madri. Le risorse per queste manovre e per la reintroduzione di un minimo di flessibilità ci sono: basta regolare il pozzo senza fondo dell’assistenza. Insomma, si può intervenire sull’anzianità contributiva e su un minimo di flessibilità in uscita che prevedemmo nella Dini e che la Monti–Fornero ha cancellato. Anche la regola che in caso di riduzione dell’aspettativa di vita non riduce l’età pensionabile è sbagliata; certo non può essere un meccanismo automatico ma dopo aver verificato un periodo congruo, se permane il peggioramento, anche l’età si deve ridurre se no facciamo il calcolo attuariale solo quando conviene allo Stato.
Lo stato di sofferenza in cui versa il sistema previdenziale è parte di una più generale crisi del welfare State così come lo conosciamo. Che indicazioni dare alla politica?
Penso che il livello delle cosiddette disuguaglianze (almeno quelle strutturali) non sia mai stato così basso in questi ultimi 100 anni in Italia, come pure negli altri Paesi industrializzati. Non dobbiamo mai dimenticarci, se no siamo degli sprovveduti provinciali, che su 7,2 miliardi di abitanti del pianeta, solo l’8% inclusi noi italiani, ha un welfare come il nostro. Inoltre invito chi si lamenta dell’incapacità dello Stato di superare le disuguaglianze e di non redistribuire la ricchezza, a guardare alle nude cifre del Bilancio statale. In Italia spediamo il 54% dell’intera spesa pubblica compresi gli interessi sul debito in pensioni, sanità, assistenza e ammortizzatori sociali; più di così è difficile e in questa classifica abbiamo raggiunto la Svezia. Tutto ciò al prezzo di tasse salatissime per la classe dirigente del Paese.
Fra la necessità di approvare la manovra di bilancio e le avvisaglie di una lunga campagna elettorale, il dibattito sulle pensioni non rischia di finire strumentalizzato a tutto svantaggio dei pensionati?
Questo rischio esiste tanta più che il dato comunicato da Istat a Eurostat è incomprensibile; indica la spesa pensionistica ben 4 punti in più della media a 28 UE quando invece siamo perfettamente in media. Non vorrei (non amo il complottismo) che su pensioni e crediti delle banche si stia giocando una seconda partita pesante contro l’Italia come avvenuto con l’ultimo Governo Berlusconi. Crei problemi alle banche così qualche Istituto straniero se le compra per pochi euro; una storia già vista in Italia con BNL e Unicredit e non solo. Il gioco sulle pensioni è ancora più duro; attenzione, oggi abbiamo l’età legale di pensionamento più alta tra i Paesi Ocse (anche se ancora l’età media di pensionamento è più bassa).
All’esame della Commissione Affari costituzionali della Camera è in discussione una modifica dell’art. 38 della Costituzione: c’è chi considera tale proposta una sorta di ‘grimaldello’ in grado di scardinare il sistema fondato su contribuzioni-pensioni e di livellare le prestazioni verso il basso. Qual è la sua opinione?
Penso sia pura follia; il nostro sistema prevede che per le pensioni ci sia un contributo specifico: la contribuzione sociale, peraltro la più elevata d’Europa. Vedo molti tentativi di scardinare il sistema che determina le pensioni sulla base dei contributi versati; procedendo così si mina per sempre il sistema con il risultato che nessuno si fiderà più di uno Stato che cambia le leggi in corsa senza applicare la regola aurea del “pro rata”. La stessa proposta sull’eliminazione dei vitalizi è palesemente anticostituzionale e può diventare un grimaldello per rivedere anche le pensioni private.
Com’è possibile che il sistema previdenziale finisca, periodicamente, per essere oggetto di improvvisi scossoni mediatici, dall’allarme spesa, alle presunte ‘pensioni d’oro’: è responsabilità della politica? dei partiti? qual è il ruolo dell’Inps?
L’Inps è l’agenzia del Governo per la gestione delle pensioni. La responsabilità è dei troppi, “troppo giovani” e privi di memoria storica ed esperienza che i partiti politici hanno mandato in Parlamento. Sentire proposte di legge che vogliono ridurre o eliminare le pensioni sopra i 3 mila euro è esattamente come immaginare che siccome una famiglia ha due case, una la si sequestra per darla a chi non ce l’ha senza fare un minimo di ragionamento. Ma il problema vero è che questa gente, spesso rissosa in aula, non ha un minimo di conoscenza né dei numeri, né del bilancio pubblico. I pensionati cosiddetti d’oro a cui i vari Governi hanno applicato il contributo di solidarietà erano 46.000 su 16,2 milioni di pensionati. Basta questo dato per ritenere che quei provvedimenti erano e sono manifestamente anticostituzionali. Se si guarda alle dichiarazioni Irpef coloro che dichiarano oltre 100.000 euro da attivi, sono lo stesso numero di quelli che percepiscono pensioni di importo correlato. A proposito di Irpef occorrerà far sapere ai giovani politici (c’è anche qualcuno di più vecchio che per voti e poltrona fa le stesse proposte) che in Italia la metà della popolazione dichiara redditi pari a zero; questo è un dato tipico dei Paesi in via di sviluppo non del 7° o ottavo paese industrializzato. Occorre dire anche che meno del 15% della popolazione (guarda caso tutti quelli a cui vorrebbero tagliare la pensione) paga oltre l’80% dell’Irpef e senza di loro gran parte del welfare, semplicemente non esisterebbe.
*Ufficio stampa Cida